Il passo romano, la disciplina in marcia

Per gli antichi Romani il passo era prima di tutto un’unità di misura. Corrispondeva a due piedi e mezzo: poco più di 74 cm. Tuttavia, non era chiamato passo ma gradus, da cui derivano il nostro “gradino” e il “grado” delle scale di misurazione, per esempio quella delle temperature. Passus, invece, era quello che noi definiremmo “doppio  passo”, cioè la distanza che separa due orme successive dello stesso piede, corrispondente a 5 piedi (148 cm). Il passus era l’unità base per il miglio romano, che equivaleva a mille passi, vale a dire 1.480 m. Gradi, passi e miglia servivano a calcolare le distanze percorse dai legionari durante gli spostamenti.

I soldati romani si muovevano con il  gradus militaris  (passo militare), che consentiva loro, di norma, di coprire 20 miglia (circa 30 km) in cinque ore di marcia: il cosiddetto  iter justum. In alcuni casi, però, era possibile che venisse adottato un passo più rapido (quindi con una maggiore frequenza), che  consentiva di  percorrere fino a 36 km. In quel caso si parlava di  iter magnum, e Cesare se ne servì spesso durante la sua campagna in Gallia. Il passo di marcia dei legionari non doveva comunque differire molto da quello di un qualsiasi esercito. Pare, infine, che durante le parate davanti all’imperatore si adoperasse un passo differente, il gradus plenum, più energico, in cui le gambe venivano tese in avanti in modo più rigido, per poi far battere rumorosamente i talloni sul selciato. Era un tipo di marcia certamente più scenografico, ma anche faticoso e non praticabile a lungo. Questo particolare passo, conosciuto attraverso il “De re militari” (L’arte della guerra) di  Vegezio (funzionario e scrittore del IV-V secolo), venne adottato dal fascismo sul finire degli anni  Trenta e chiamato impropriamente “passo romano”. La fonte di ispirazione, in realtà, più che il passo dei legionari, era il “passo dell’oca”, l’exerzierschritt, di origine prussiana e passato poi all’esercito nazista.