L'acquedotto, il simbolo della potenza di Roma

Gli acquedotti sono tra le opere più imponenti e significative di tutta l’epoca romana. Con essi si arrivò ad una vera e propria cultura del trasporto delle acque, un sistema idrico unico nel mondo antico. In tutto il territorio dell’impero ne furono costruiti oltre duecento e solo a Roma ne esistevano ben undici. Alla fine del I secolo d.C. questa tecnologia portò Roma ad immagazzinare quasi un milione di metri cubi di acqua potabile che giungeva ogni giorno in città, cioè quasi mille litri per abitante.

Lo scrittore e politico Giulio Sesto Frontino nel 96 d. C., nel suo De aquaeductu urbis Romae (Sugli acquedotti della Città di Roma), ci fornisce un rapporto ufficiale sullo stato degli acquedotti di Roma redatto in due libri. È l’unico rapporto ufficiale di un’indagine fatta da un illustre cittadino sulle opere di ingegneria romana che sia sopravvissuto ai giorni nostri.

Non a caso Frontino era stato nominato curator aquarum dall’imperatore Nerva proprio nel 96 d.C..

Grazie anche ai suoi scritti, possiamo ancora oggi tracciare una mappa degli acquedotti romani e delle loro caratteristiche (architettoniche e funzionali).

Gli acquedotti di Roma furono strutture imponenti e sofisticate, tali da renderle, anche a distanza di 1.000 anni dalla caduta dell’Impero, ineguagliate sia a livello tecnologico che qualitativo. Frontino arrivò addirittura a scrivere che gli acquedotti romani fossero: «la più alta manifestazione della grandezza di Roma».

In precedenza, per diversi secoli, il Tevere, le sorgenti ed i pozzi furono in grado di soddisfare il fabbisogno idrico della città, ma con l’imponente lo sviluppo urbanistico e la crescita demografica è stato necessario ricorrere ad altre fonti: fu allora che, grazie all’abilità dei suoi costruttori, si realizzarono gli acquedotti. Da quel momento in poi, ovvero dal 312 a.C., affluì a Roma una quantità enorme di acqua potabile. Con ogni probabilità nessun’altra città del mondo antico, ma forse di ogni epoca, ricevette mai una quantità d’acqua del genere; questo valse a Roma il titolo di regina aquarum, ossia “regina delle acque”.

Ma come iniziava il lavoro di realizzazione di un acquedotto?

Innanzitutto, bisognava scegliere la sorgente e le vene acquifere da utilizzare, le quali dovevano essere molto alte per fornire la giusta pendenza alla conduttura che doveva trasportare l’acqua fino a Roma (era essenziale ovviamente anche la qualità dell’acqua). Una volta selezionata la sorgente, iniziava la costruzione dell’acquedotto. All’inizio come alla fine dell’acquedotto vi erano le cosiddette camere di decantazione o piscinae limariae, nelle quali l’acqua subiva un processo di purificazione grazie al deposito delle impurità più grossolane. Dalla piscina partiva il canale di conduzione, lo speco (specus): costruito in pietra o in muratura e foderato di cocciopesto, lo speco doveva mantenere una pendenza costante per assicurare il continuo flusso dell’acqua. Inoltre, la maggior parte del percorso della condotta era sotterraneo, per evitare che nel periodo estivo l’acqua si surriscaldasse troppo (era eccezionalmente a cielo aperto quando attraversava dorsali collinari, corsi d’acqua o vallate).

Per far fronte ai dislivelli causati da zone depressive o da vallate, i Romani utilizzavano il sistema del sifone, o “sifone rovescio”: l’acqua aumentava la propria pressione all’interno di una “torre” posta all’estremità della valle da attraversare, a quel punto scendeva in condotta forzata per risalire all’estremità opposta della valle con una pressione tale da consentire la prosecuzione del flusso.

Per la manutenzione dei condotti (in particolare per eliminare l’accumulo di calcare che a lungo andare poteva ostruire lo speco), vi erano dei tombini muniti di piccole scale che garantivano la discesa degli addetti ai lavori nel canale.

Come accennato prima, la condotta principale terminava in un “castello” (castellum aquae), una imponente costruzione a forma di castello, al cui interno vi erano camere di decantazione e una vasca, che avevano il compito di depurare l’acqua per poi immetterla nelle condutture urbane. Dal castello partivano le diramazioni urbane verso castelli secondari. Molto spesso presso il castello terminale veniva innalzata una “mostra d’acqua”, una fontana monumentale creata per celebrare lo sbocco dell’acquedotto in città.

Qui sono elencati i più famosi per l'architettura e la bellezza:

Ponte del Gard, nel Sud della Francia. Costituito da tre serie di arcate, il ponte domina il fiume Gardon con i suoi 49 m di altezza e 275 di lunghezza. Celebrato da Stendhal come “musica sublime”. Nel 1985 l'acquedotto è stato inserito nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.

Acquedotto Eifel, in Germania. Al livello più basso, gli ingegneri romani posero un'ampia base di pietre, con una scanalatura in calcestruzzo e pietra a forma di U per l'acqua e, sopra a questo, pietre squadrate e malta un arco protettivo. Per il calcestruzzo e l'arco furono usate tavole di legno per dare la forma, con i segni delle nervature ben visibili nel calcestruzzo anche dopo 2000 anni. L'acquedotto ha una larghezza interna di 70 cm e altezza di 1 m., in modo che gli operai potessero entrare in caso di necessità. L'esterno era sigillato con intonaco in modo da tenere all'esterno l'acqua sporca. In vari posti venne creato un sistema di drenaggio per tenere lontana l'acqua presente nel suolo. L'interno dell'acquedotto era intonacato con una sostanza rossa, l'opus signinum, composta da calce viva e mattoni rotti. Questo materiale era resistente all'acqua ed evitava perdite. Le piccole crepe venivano sigillate con legno di frassino.

Acquedotto di Caesarea, Palaestina, in Israele. Era un doppio acquedotto che portava l'acqua in città dalle sorgenti del Monte Carmelo.

Acquedotto di Segovia, in Spagna. L'acquedotto è costruito con blocchi di granito assemblati a secco assicurando la staticità dell'opera grazie al loro perfetto incastro ed al proprio carico gravitazionale. L'arcatura a tutto sesto è su uno o due livelli secondo l'altimetria del terreno, e la semplicità della trasmissione dei carichi fornisce l'adeguato supporto alla struttura. I pilastri superiori sono più stretti degli inferiori per l'alleggerimento dei carichi che gravano sulla campata inferiore, che si mostra più "snella" in rapporto all'esilità complessiva della struttura per la maggiore altezza di quasi tutti i piedritti. Infatti ciascun pilastro presenta da 2 a 4 riseghe per assicurare una quota costante alla campata superiore, rispetto alle variazioni del terreno, raggiungendo altezze notevolissime (nel tratto di maggior dislivello raggiungono un'altezza superiore ai 15 m.) rispetto all'esilità trasversale della struttura ed alla sua notevole lunghezza.

Acquedotto di Mérida, in Spagna. Questo acquedotto portava in città l'acqua raccolta dallo sbarramento di Proserpina. I resti hanno una lunghezza di 827 metri le arcate alte 25 metri ciascuna.

Acquedotto di Tarragona, in Spagna. Detto "Ponte del diavolo": il ponte dell'acquedotto romano de Les Ferreres presso il fiume Francolí, a circa 4 km dalla città. Portava in città le acque dalla località di Puigdelfi, risalente al I secolo d.C.. Superava una vallata con un ponte, alto 27 m e della lunghezza complessiva di 217 m, a due ordini di arcate in opera quadrata, tuttora conservate.

Acquedotto di Valente, ad Istanbul, in Turchia. Fu costruito sotto l'impero di Costantino (I secolo DC); ne sono conservati 800 m della sua lunghezza originale di oltre 1 Km. Posto su due livelli portava alla città le acque del fiume Alibey.

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, però, alcuni acquedotti furono deliberatamente tagliati dai nemici, ma molti caddero in disuso per mancanza di un manutenzione organizzata. Il loro danneggiamento ebbe un impatto sulla popolazione delle città; Gli acquedotti a Roma furono messi fuori uso nel VI secolo d.C. a causa dell'assedio degli Ostrogoti; furono chiusi per evitare che fossero usati come vie di accesso. In questo modo, Roma scese dal suo massimo di oltre 1 milione di abitanti in epoca imperiale a 30.000 nel medioevo.

Durante il Rinascimento, i resti ancora in piedi degli enormi acquedotti in muratura della città ispirarono architetti, ingegneri e i loro protettori; papa Niccolò V nel 1453 restaurò a Roma il canale principale dell'Aqua Virgo. Molti acquedotti dell'impero romano ebbero buoni restauri.

Nel XV secolo, il ripristino dell'acquedotto di Segovia in Spagna mostra anticipazioni sul Ponte del Gard con l'uso di un minor numero di archi di maggior altezza, e quindi una maggior economia nell'uso delle materie prime. La capacità di costruire non fu persa, specialmente dei canali più piccoli, più modesti impiegati per fornire energia a qualche ruota idraulica.