La battaglia di Magnesia, il ritorno e la fine di Annibale

Antioco III di Siria, della dinastia dei Seleucidi, aveva vinto alcune guerre contro i Tolomei e nell’anno 192 a.C., rispondendo all’appello di alcune città greche contrarie a subire il protettorato romano, invase la Grecia. Consigliere militare di Antioco III era nientemeno che il grande genio militare Annibale, il quale era stato costretto ad allontanarsi da Cartagine e ad andare in esilio, prima a Tiro, in Fenicia, poi alla corte del re seleucide.

La risposta di Roma non si fece attendere e pertanto scoppiò una difficile e aspra guerra con Antioco III. Il re seleucide, benché vinto in Grecia, alle Termopili, e costretto a ritirarsi in Asia Minore, continuava a rappresentare una seria minaccia per gli interessi di Roma. Quindi i Romani pensarono di portare la guerra nel territorio del proprio nemico, in Asia, per eliminare definitivamente i pericoli che potevano provenire dal re seleucide.

A capo dell’esercito romano fu nominato Lucio Cornelio Scipione, detto poi l’Asiatico, fratello di Scipione l’Africano, che si offrì di partecipare alle operazioni militari. L’Africano come ufficiale subordinato del fratello (ma di fatto come comandante in capo dell’esercito) avrebbe affrontato ancora una volta Annibale.

Le due potenti armate, quella romana e quella seleucide, nel dicembre del 190 a.C. si affrontarono a Magnesia, sul fiume Meandro, a monte di Efeso, nei pressi dell’attuale città di Germencik, in Turchia.

Secondo gli storici antichi lo scontro era impari dal punto di vista numerico a sfavore dei romani: infatti l’esercito romano, forte di 30mila soldati, affrontava l’armata seleucide, che ne contava circa settantamila. Nonostante questo i Romani non aspettavano altro che la battaglia. Scipione aveva passato il fiume ed eretto il suo accampamento a quattro chilometri da quello di Antioco. Quando le legioni proseguirono la marcia, il fiume proteggeva la loro ala sinistra; nel momento in cui la battaglia cominciò tutta la cavalleria alleata (tranne quattro squadroni) si trovava sul lato destro.

La carica dei cammelli e dei carri falcati dell’esercito seleucide diede inizio alle ostilità, ma il loro attacco si rivelò un vero e proprio disastro e i sopravvissuti, indietreggiando, scompaginarono le file della cavalleria sul lato sinistro dello schieramento di Antioco. Nel frattempo il re aveva guidato una carica vittoriosa sulla destra, spezzando le linee nemiche; ma questo successo si rivelò effimero, perché nell’inseguire i Romani la sua cavalleria puntò alla conquista del loro accampamento, che però era ben difeso. Antioco III ritornò allora alla carica per sfruttare lo spazio aperto dai suoi carri.

L’attacco, per quanto guidato dal sovrano in persona, fallì. La falange seleucide attaccò le legioni romane e si ebbe un combattimento feroce tra fanterie. I Romani colpirono la falange con gli arcieri e i frombolieri, causando gravi perdite. La resistenza della falange si affievolì irrimediabilmente quando gli elefanti, spaventati dal clamore della battaglia, cominciarono a corrervi contro, sino a scomporre le fila. Si determinò in questo modo uno sbandamento generale, nel quale Antioco perse circa 50mila uomini, mentre i Romani (che non avevano nemmeno dovuto intervenire con le legioni) contavano solamente alcune centinaia di morti.

Questa battaglia decise la guerra. Così si arrivò al trattato di Apamea, stipulato nel 188 a.C., in cui venne stabilito che il re seleucide dovette abbandonare tutti i suoi territori in Asia Minore, la quale venne successivamente riorganizzata in una varietà di piccoli regni vassalli di Roma.

 Nel frattempo i Romani chiesero nuovamente la resa di Annibale, che andò ancora in esilio e, dopo un soggiorno in Armenia, si rifugiò presso Prusia, re della Bitinia.

Questi acconsentì a consegnarlo ai Romani, ma il generale cartaginese, per non cadere nelle mani del nemico, nel 183 a.C. si suicidò con il veleno. Si dice che prima di esalare l’ultimo respiro abbia ironicamente detto: “Liberiamo finalmente i Romani dalla paura, visto che non sanno attendere la morte di un vecchio”.