Roma oltre il Danubio

All’inizio del II secolo d.C., quando sembrava che Roma avesse ormai raggiunto i limiti della sua espansione, una nuova provincia si aggiunse all’Impero: la Dacia, con le sue immense ricchezze d’oro e d’argento.

Nel I secolo d.C., Roma era ormai la padrona incontrastata del bacino del Mediterraneo. Nella parte centrale del continente europeo, dopo la conquista della Gallia e della Britannia, i confini si erano stabilizzati lungo il corso del Reno e del Danubio, chiamato Istro. A nord di quest’ultimo, come ricorda Plinio il Vecchio, «tutte le popolazioni appartengono al ceppo degli Sciti, ma occupano le zone adiacenti alla costa in modo differenziato: da una parte i Geti, chiamati Daci dai Romani, dall’altra i Sarmati». Un vasto territorio, abitato da popoli bellicosi e seminomadi, tra cui si distingueva quello dei Geti o Daci, che nel I secolo a.C. avevano dato vita a un reame fiorente e organizzato sotto la guida del re Burebista, contemporaneo di Giulio Cesare, con il quale il dacico rischiò anche di entrare in conflitto dopo essersi alleato con Pompeo. Morto Burebista, il suo regno si era dissolto, diviso tra vari sovrani locali, fino a quando un suo discendente, Decebalo, era riuscito a ricostituire uno Stato unitario. Tenuti sotto controllo dai primi imperatori, benché compissero minacciose incursioni oltre il limes, i Daci erano arrivati a uno scontro più deciso con Roma all’epoca di Domiziano, che fu imperatore fra l’81 e il 96 d.C.

Con l’intenzione di creare un cuscinetto difensivo oltre il Danubio, Domiziano, provocato da una serie di incursioni daciche nella provincia della Mesia (le attuali Serbia e Bulgaria), aveva inviato le sue legioni al di là del fiume, ottenendo importanti vittorie in territorio transilvano. Tuttavia, pressato dai Quadi e dai Marcomanni, popoli germanici che abitavano anch’essi a nord dell’Istro, si era deciso a concludere con Decebalo una pace frettolosa, in base alla quale il sovrano dacico si abbassava al grado di “re cliente” di Roma, pur conservando, di fatto, tutte le sue prerogative. Era l’89 d.C. Solo una decina d’anni dopo, Decebalo, che intanto aveva ricostituito il proprio esercito anche grazie a sussidi giunti dall’Urbe e all’aiuto di artigiani e maestranze romane, tornò a premere lungo i confini, rendendo il limes permeabile e fragile. Traiano, che nel frattempo aveva preso il posto di Domiziano, assassinato nel 96 d.C. (inizialmente gli era succeduto il vecchio senatore Nerva, che si era però dimostrato incapace di reggere il principato), decise di risolvere la situazione mediante una massiccia campagna bellica. Lo scopo era quello di quietare per sempre Decebalo, ma anche di trasformare la Dacia in una provincia (quindi governata direttamente da Roma) e di impossessarsi delle ricchezze locali, soprattutto oro e argento. La regione della Dacia aveva già costituito un obiettivo per Cesare, che poco prima di morire vi aveva mandato in avanscoperta il suo erede, Ottaviano; ora Traiano aveva deciso che era venuto il momento di accaparrarsi definitivamente quel territorio, così ricco di miniere preziose. La campagna, però, richiedeva una preparazione accurata e rinforzi da parte dei popoli germanici già sottomessi. L’imperatore riuscì a schierare una quindicina di legioni danubiane, oltre a unità ausiliarie e di cavalleria, per un totale di 150 mila armati. Dal canto suo, Decebalo poteva contare, secondo gli storici, su circa 200 mila guerrieri e qualche alleato. La guerra ebbe inizio nel 101 d.C. Il 25 marzo di quell’anno, Traiano raggiunse la Mesia. Assieme a lui c’erano la guardia pretoriana e il prefetto del pretorio, Tiberio Claudio Liviano.

 Il piano generale della campagna era semplice. Le parole di Traiano, tramandateci da Prisciano di Cesarea (storico del VI secolo) sarebbero state: «Inde Berzobim, deinde Aizi processimus», cioè “Prima prenderemo Berzobim, poi Aizi”, due località che, partendo dal Danubio, si trovavano sulla strada per la Dacia interna, fitta di selve e montagne, dove Decebalo aveva la sua capitale, Sarmizegetusa Regia, costruita su una rupe alta 1.200 m e circondata da sei cittadelle fortificate. Per raggiungerla, Traiano avrebbe dovuto attraversare le cosiddette Porte di Ferro, una stretta gola fluviale nei dintorni della località di Tapae, dove già Romani e Daci si erano scontrati al tempo della campagna effettuata da Domiziano. È probabile che Traiano muovesse le sue truppe su due colonne separate, sia per accelerarne la marcia, sia per scongiurare il pericolo di imboscate nemiche e tentare una manovra di accerchiamento dei Daci. Tuttavia, poco sappiamo sui suoi effettivi movimenti.

Sta di fatto che, attraversato il Danubio, l’esercito romano avanzò senza trovare forti resistenze. Decebalo decise infatti di ritirarsi in profondità, attestandosi nelle zone a lui più favorevoli, nel cuore delle montagne della  Transilvania. Durante la marcia, solo il popolo germanico dei Buri, alleati dei Daci, si mise di traverso ai Romani. Come ricorda Dione Cassio nella sua Storia romana: 

«mentre Traiano era giunto nei pressi di Tapae, dove si erano accampati i barbari, gli venne portato un grosso fungo sul quale era stato inciso, in latino, che i Buri e gli altri alleati invitavano Traiano a tornare indietro e rimanere in pace».

La cosa non turbò l’imperatore, che proseguì la propria marcia, seppur cautamente. Presso Tapae, i due eserciti ebbero finalmente un primo scontro, strategicamente ininfluente ma sanguinoso, con perdite ingenti su entrambi i fronti. Alla fine la vittoria arrise ai Romani e Decebalo si ritirò ulteriormente, cercando riparo nelle sue fortezze. Nelle mani dei Romani, intanto, era caduta la fortezza di Costesti, lungo la strada per Sarmizegetusa. Giunse però l’inverno, e Traiano si accampò per svernare prima di sferrare l’assalto decisivo al nemico. Proprio allora, Decebalo tentò un’audace mossa diversiva: con l’aiuto di alcuni alleati attaccò la Mesia Inferiore, sperando di distogliere Traiano dal suo obiettivo. All’inizio la fortuna arrise al re dacico, ma poi l’esercito guidato dal governatore Manio Laberio Massimo riuscì a tamponare l’invasione. Il sopraggiungere dei rinforzi inviati dall’imperatore, che non era stato colto impreparato, determinò per Decebalo una pesante sconfitta. L’offensiva riprese nel marzo del 102. I Romani, che si muovevano su tre colonne distinte, si riunirono a una ventina di chilometri dalla capitale dei Daci. Dando battaglia alle cittadelle che circondavano Sarmizegetusa, riuscirono a espugnarne alcune. Ciò impressionò Decebalo, che confidava nell’imprendibilità di quelle fortezze, tanto da convincerlo a inviare all’imperatore due ambascerie con richieste di pace. La prima si perse, ma la seconda arrivò a Traiano. Costui, tuttavia, propose condizioni talmente dure che furono rifiutate e la guerra proseguì. 

Le ultime fortezze daciche caddero sotto le armi d’assedio dei Romani e Traiano si aprì definitivamente la strada verso la capitale di Decebalo, la cui sorte sembrava ormai segnata. Il re dacico, per evitare un inutile spargimento di sangue e brutali sofferenze alla città, decise di arrendersi, nonostante le condizioni imposte dal nemico: Decebalo dovette accettare l’insediamento di guarnigioni romane sia a Sarmizegetusa che a Berzobim; fu costretto ad abbattere le mura di alcune cittadelle e a rinunciare a costruirne di nuove; dovette cedere territori alle province romane confinanti; si impegnò a rinunciare a una politica autonoma da quella imperiale; accettò, infine, il ruolo di “re cliente” di Roma. Tornato nell’Urbe, dove il trattato venne ratificato, Traiano ottenne il trionfo per la vittoria e prese il titolo di Dacicus. Gli accordi, però, non furono rispettati dai Daci. Decebalo riarmò l’esercito, ricostruì le fortezze attorno alla sua capitale, cercò nuovi alleati tra i popoli vicini e fece sterminare la nobiltà dacica che parteggiava per i Romani.

Di conseguenza, nel giugno del 105 d.C, Traiano partì un’altra volta per la Dacia. Nel frattempo, Decebalo aveva attaccato di nuovo la Mesia, catturato un comandante dell’Urbe e perfino cercato di far assassinare l’imperatore da alcuni disertori romani, che si erano fatti ricevere con la promessa di rivelargli informazioni importanti per la nuova campagna. Sistemate le cose in Mesia, Traiano penetrò nuovamente in territorio dacico. Molte delle popolazioni incontrate all’inizio del suo cammino gli tributarono un omaggio spontaneo, ma la situazione restava tesa. Decebalo, con la solita tattica, si asserragliò nella regione più inaccessibile del Paese, facendo attaccare alcune postazioni romane isolate nel tentativo di scoraggiare il nemico e demoralizzarlo. Ma Traiano si mise in marcia, puntando direttamente contro Sarmizegetusa.

I Romani, inoltre, penetrarono in Dacia da ovest, con le truppe provenienti dalla Pannonia, e da sud, sfondando in Transilvania attraverso i Carpazi con le legioni di stanza in Mesia. Poiché i Daci evitavano le battaglie in campo aperto, ma cercavano sempre di combattere negli angusti spazi montani, Traiano condusse la guerra con prudenza. Scopo dell’imperatore, dopo aver preso una dopo l’altra le fortificazioni daciche, era quello di conquistare la capitale. Gli alleati di Decebalo, considerata la fermezza dei nemici, lo abbandonarono. Il re, rimasto solo, oppose una resistenza disperata, ma i Romani lasciarono sul campo morti e feriti; infine, dopo un lungo e sanguinoso assedio, Sarmizegetusa Regia cadde. Per evitare di essere fatti prigionieri, i capi dei Daci si tolsero la vita. Decebalo fuggì nel Nord del Paese, sui monti Carpazi, ma una guarnigione romana si mise a braccarlo. Traiano era deciso a ottenere la sottomissione definitiva della Dacia, e fece edificare strade e fortini per isolare il nemico e non concedergli alcun vantaggio. L’avanzata, alla fine, risultò inesorabile e si strinse attorno al fiero avversario. I capi dei Daci del Nord si unirono al re in un ultimo disperato tentativo di resistenza. Riportarono anche qualche vittoria, ma l’esito della campagna era già scritto. Decebalo fu raggiunto dai Romani a Ranistroum (l’odierna Piatra Craivii, un’altura di circa 1.000 m su cui sorgeva una fortezza), e lì si uccise con altri nobili e comandanti. La sua testa venne portata a Traiano dall’explorator (ricognitore a cavallo) Tiberio Claudio Massimo, che grazie a questo atto guadagnò la promozione a decurione (comandante di cavalleria). Il re aveva preferito togliersi la vita piuttosto che consegnarsi al nemico ed essere costretto a sfilare come preda di guerra durante il trionfo di Traiano. Per qualche tempo, i Romani dovettero sedare sommosse, ma alla fine il regno di Decebalo fu trasformato nella nuova  provincia di Dacia, con capitale Colonia Ulpia Traiana Augusta Dacica. Si dice che la campagna di Dacia abbia fruttato a Traiano un bottino di ben 5 milioni di libbre d’oro (una libbra romana equivaleva a 327 g) e 10 milioni di libbre d’argento, oltre a mezzo milione di prigionieri di guerra, armi e materiali vari. Insieme al trionfo, all’imperatore furono tributati giochi e gare di vario genere. In memoria dell’impresa fu innalzata la Colonna Traiana, alta 30 m, con un fregio a spirale di 200 m, scolpito a rilievo, in cui sono illustrate le fasi dell’impresa. Ma, soprattutto, la colonizzazione della Dacia con cittadini provenieni dall’Italia e da altre province romane contribuì a creare un cuscinetto strategicamente importante all’interno del territorio barbarico che si stendeva oltre il Danubio.