La medicina marina descritta da Plinio il Vecchio

Attenzione! Prima di cominciare a leggere siete avvisati di non prendere alla lettera queste cure. In ogni caso si declina ogni responsabilità a riguardo di incidenti futuri.

Basata su credenze popolari più o meno credibili dalla pratica, la medicina romana era un’arte poco teorica e molto approssimativa, soprattutto quando si avventurava a suggerire rimedi per affezioni la cui vera origine sarebbe  stata portata  alla luce solo molti secoli più tardi, con la scoperta di virus e batteri. All’epoca, anche le menti più illuminate erano piene di  superstizioni e il “metodo scientifico” era ancora tutto da inventare.

Non faceva eccezione un naturalista come Plinio il  Vecchio, che pure si dimostrava spesso scettico di  fronte  a  quanto  riportava,  giustificandosi dietro un impersonale “si dice”. Nel  libro  XXXII  della  sua  “Naturalis  historia”,  per  esempio,  Plinio  cita  una  serie  di rimedi medici derivati da creature acquatiche o marine, sia animali che vegetali. Ed elenca una lunghissima lista di disturbi e malattie che ognuno di questi farmaci sarebbe stato in grado di guarire o almeno di alleviare.

Uno di questi rimedi era il corallo, ornamento che molti popoli, come i Galli, usavano per adornare spade, elmi e scudi (come confermato dai ritrovamenti archeologici), e che al tempo di Plinio era diventato un amuleto contro diversi malefici. I bambini ne portavano al collo un ra-metto come portafortuna: lo stesso, ridotto in polvere o in cenere, veniva utilizzato, disciolto nell’acqua, per combattere i calcoli, i dolori intestinali e alla vescica.

Le medesime polveri, mescolate al vino, avevano il potere d’indurre il sonno, mentre assunte senza liquidi potevano guarire chi sputava sangue, cioè i tubercolotici.

Rimedi straordinari erano considerati i testicoli di castoro (animale ritenuto allora più acquatico che terrestre), descritti come piccoli, ma dalla straordinaria efficacia terapeutica. Trattati in vari modi, i loro estratti curavano il delirio, agevolavano il ritorno delle mestruazio-ni dopo il parto, guarivano da vertigini e crampi, alleviavano la sciatica, i dolori di stomaco e le affezioni ai tendini.

Curavano anche l’epilessia e, sciolti in pozione, risultavano efficacissimi contro la flatulenza e le coliche intestinali. Non mancavano, inoltre, di rappresentare uno straordinario antidoto contro il veleno di scorpioni, ragni e serpenti: nel primo caso andavano mescolati al vino, nel secondo al vino mielato, nel terzo al vino misto a ruta. Spalmati in vario modo, dopo averne ricavato una pomata, curavano denti, orecchie e occhi. L’urina di castoro era utile contro i veleni e veniva usata per preparare antidoti.

La carne delle tartarughe di mare, mista a quella di rana, era consigliata come rimedio contro il morso della salamandra, mentre il sangue curava l’alopecia, la forfora e le ulcerazioni del cuoio capelluto. Perché risultasse efficace doveva essere spalmata, lasciata seccare e poi lavata via con cura. Misto al latte di donna, lo stesso sangue di tartaruga era efficace contro il mal d’orecchie, mentre mescolato a farina e aceto diventava un buon farmaco per l’epilessia. Inoltre, «se i denti vengono lavati tre volte all’anno con sangue di tartaruga diventano immuni dal dolore». Il fiele (cioè il liquido secreto dal fegato) delle tartarughe rendeva lisce le cicatrici, schiariva la vista ed era efficace contro tutte le affezioni della gola, oltre che le ulcere ai testicoli.

Per curare le orecchie purulente, Plinio forniva invece questa ricetta: bollire una tartaruga nel vino, aggiungere pelle di serpente, fiele di bovino e aceto. Non chiarisce, tuttavia, come vada assunto questo medicamento, se per bocca oppure applicato sulla parte malata.

L’orata era un ottimo rimedio per chi avesse ingerito miele velenoso. Se, invece, di miele (anche buono) si faceva indigestione, occorreva ricorrere a una tartaruga ben cotta, ricordandosi però di tagliare testa, coda e zampe della bestia prima della bollitura. 

La carne di triglia, mangiata o applicata sulla parte morsa, risultava efficace contro gli scorpioni, i pitoni e diversi ragni, oltre che contro la pastinaca, una  razza di grosse dimensioni il cui aculeo caudale e velenifero era in grado d’infliggere ferite dolorose e anche mortali. La testa della triglia  ridotta in cenere  era utile «contro tutti  i  veleni,  e  uno  specifico  contro  i  funghi». Una stella marina appesa allo stipite superiore dell’uscio di casa si trasformava in un amuleto contro il malocchio e i malefici.

Cautamente, Plinio non si dichiara sempre certo dell’efficacia delle sue ricette. Quando qualcosa gli pare inverosimile, ne cita la fonte, per declinare ogni responsabilità in merito. Per esempio, quando scrive:

«Democrito racconta che se si strappa la lingua a una rana viva, senza che assieme alla lingua venga via alcuna altra parte del corpo, e dopo aver immerso la rana nell’acqua la si mette dove batte il cuore di una donna addormentata, questa risponderà la verità a qualsiasi domanda».

I granchi di fiume tritati o ridotti in cenere erano considerati un altro tradizionale rimedio contro i veleni, purché diluiti con latte d’asina o di capra, oppure vino.

Chi era stato morso da un cane rabbioso poteva essere curato spalmandogli sul viso del grasso di foca (che Plinio chiama “vitello marino”). Tale grasso diventava ancora più efficace se mescolato a midollo di iena, olio di lentisco e cera.

Proprietà mediche avevano anche le ostriche, che ristabilivano lo stomaco ed erano emollienti per l’intestino:

«La cenere del guscio delle ostriche dà sollievo a ugola e tonsille, cura le parotiti e gli indurimenti delle mammelle, distende la pelle femminile, è un ottimo dentifricio, cura i pruriti e le eruzioni cutanee».

Curioso il potere del nero di seppia:

«Se si mette nella lucerna, la luce precedente scompare e finiamo tutti per somigliare agli Etiopi».